domenica delle palme

AFORISMI DEL SIGNORE

venerdì 27 gennaio 2012

27 GENNAIO 2012 GIORNATA DELLA MEMORIA

Una riflessione sulla "Giornata della Memoria"

La “Giornata della Memoria” non deve servire solo per ricordare lo sterminio di sei milioni di Ebrei, ma anche quello dei malati, degli apolidi, dei perseguitati politici, dei “diversi”, dei bambini…., altrimenti diventerebbe giornata della “damnatio memoriae”.
A noi spetta l’elementare dovere di ricordare quello che è avvenuto, non certo per fomentare odio verso gli aguzzini, ma per ammonirci vicendevolmente sugli esiti nefasti, estremi, che l’intolleranza, il razzismo, la negazione di libertà portano tragicamente con sé.


Poco più di sessant’anni fa per le strade della nostra Europa si aggirava una tribù selvaggia e spietata, che dava la caccia ai bimbi degli orfanotrofi, ai vecchi, ai malati degli ospedali e delle case di cura, agli handicappati, agli uomini e alle donne, alla gioventù di paesi interi, per bruciarli vivi, per annegarli nei fiumi, per avvelenarli con dei gas, per seppellirli vivi in enormi fosse comuni. Questa tribù selvaggia non era composta dai leggendari “mongoli” o dagli “unni” delle lontane steppe asiatiche dei tempi antichi e nemmeno da strambi e incomprensibili extraterrestri arrivati da un pianeta lontano; era un corpo statale, scelto e selezionato, della nazione che per tutto il Settecento e l’Ottocento aveva ispirato la cultura europea e che ora dava a quella “tribù” la piena copertura morale e materiale per compiere questo incredibile scempio. E non si può fare a meno di pensare ai tanti, troppi bambini annientati, non si può non pensare ad Auschwitz, abisso senza ritorno, dove l’umanità è sprofondata per sempre.

Una donna, che, come tante, vide partire la figlia su uno dei “treni di bambini” diretti ad Auschwitz, rivolgendosi a chi avrebbe ricevuto la bambina, raccomanda di averne cura, perché debole e affetta da un disturbo all’apparato digerente: “Prego la persona che avrà cura dei bambini di avere pietà di mia figlia: ho già perso un figlio, ma forse riuscirò a rivedere la mia piccola. Non posso scrivere più perché sento che sto per svenire e che non ce la farò a reggere. Vi prego molto: occupatevi di questa mia piccola, che è senza difese e tanto debole. Ti bacio, cara Haluscia, la tua mamma”.

Lo stesso termine che comunemente usiamo quando parliamo dello sterminio nazista, Olocausto, riflette un messaggio fatto di particolarità e di mistero. Di lontananza. Come sappiamo esso indica la pratica diffusa tra i popoli pastori dell’antichità di offrire, bruciandola completamente nel fuoco, una vittima sacrificale alla divinità in segno di ringraziamento o di riconciliazione. Ma questo significato sacralizzante è in realtà del tutto assente nel termine ebraico di cui dovrebbe pur essere la traduzione: shoah, “distruzione”. Per indicare il rito sacrificale dell’Olocausto, l’Antico Testamento usa, infatti, un altro termine “olâ”. Si tratta quindi di una deviazione terminologica non indifferente: il rapporto fra l’uomo e la divinità annulla il rapporto tra l’uomo e i suoi simili, cioè la responsabilità terrena e concreta di chi all’Olocausto ha posto mano di propria volontà. L’intenzione sacrosanta di restituire onore e dignità alle vittime impone di utilizzare il termine shoah, distruzione voluta, pianificata, perpetrata dall’uomo contro l’uomo, meglio se bambino…Lo sterminio dei bambini è, forse, il fenomeno più tragico del nazismo. Fu uno sterminio di massa, pianificato e realizzato con zelo e precisione, senza compromessi e senza pietà. I nazisti eseguirono l’infanticidio di massa con uno scopo ben preciso: intendevano colpire il popolo ebraico privandolo della possibilità di rigenerazione biologica nel futuro più lontano. Noi rifuggiamo, per lo più, dal considerare la singola individualità di coloro che costituiscono i milioni e milioni di morti dei Lager nazisti, come se guardare il fenomeno nella sua globalità ponesse in qualche maniera degli argini al dilagare in noi una sensazione sconvolgente di sofferenza. Ma ciascuno di quelli che ha patito crudelmente ed è stato negato nella sua umanità, torturato, soppresso era una persona “con un nome, un volto, desideri e speranze” (J. Fucik): una persona che, quando si può, va salvata dall’oblio. Non farlo equivarrebbe a ucciderla un’altra volta, a perderla, forse, definitivamente. Dobbiamo sforzarci di capire come si sia giunti ai misfatti dei campi di sterminio, e di distinguere ogni comportamento umano alla luce delle circostanze di tempo e di luogo che lo condizionarono: con acuta chiaroveggenza, ma anche con infinita pietà. Quello che è accaduto, infatti, può di nuovo accadere, come Primo Levi avvertiva, se non manteniamo chiara e chiarificatrice la memoria del passato e vigile la coscienza critica sul presente. Il razzismo è ancora un grembo fecondo.

La tragica lezione posta in essere negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso non è bastata agli uomini. Nuovi razzismi si sono affacciati nei vari continenti del globo, e ancora divampano: prima in Cambogia, poi nel Ruanda e nella ex Iugoslavia… Una nuova, ignobile formula si è affiancata a quella di “soluzione finale”, quella di “pulizia etnica”. Tutte forme diverse dall’antisemitismo, ma ad esso apparentate, pur lontane, come sono, dalla sua perfezione scientifica di stampo teutonico. Oggi difficilmente potrebbe avvenire un’altra Shoah nei confronti degli Ebrei, ma la storia recente, anzi, la cronaca quotidiana, ci mostra che il pericolo di altri genocidi non è affatto scongiurato. È per questo che non bisogna mai abbassare la guardia. Che almeno per le vittime della furia selvaggia dell’uomo non si compia l’accorata profezia che chiude una lirica ritrovata in un campo di sterminio:

“Morirò domani
con parole d’amore sulle labbra
nell’alba di una notte d’esilio
solo
di fronte al cielo indifferente
nessuno avrà saputo la mia fatica
per diventare uomo”.

Giornata della Memoria

Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte e oscurate: anche le nostre. (Primo Levi) 

Testimonianze di sopravvissuti

Aharon Appelfeld
 “Sono passati già più di cinquant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale. Il cuore ha dimenticato molto, soprattutto luoghi, date, nomi di persone, ma malgrado ciò sento quei giorni con tutto il mio corpo. Ogni volta che piove, fa freddo o soffia un forte vento, torno nel ghetto, nel campo di concentramento o nel bosco dove ho trascorso molti giorni. A quanto pare la memoria ha radici profonde nel corpo. A volte bastano l’odore del fieno che marcisce o il grido di un uccello per trascinarmi lontano e dentro di me”.

Elie Wiesel
 Mai potrei dimenticare quel silenzio notturno che mi privò, per tutta l’eternità, del desiderio di vivere. Mai dimenticherò quei momenti che uccisero il mio Dio e la mia anima, e ridussero i miei sogni in polvere.

Piero Terracina
L'arrivo al campo.
“Sono stato arrestato a Roma con la mia famiglia. La notte del 17 maggio del ’44 ci misero in 64 in un vagone. Fu un viaggio allucinante, tutti piangevano, i lamenti dei bambini si sentivano da fuori, ma nelle stazioni nessuno poteva intervenire, sarebbe bastato uno sguardo di pietà. Le SS sorvegliavano il convoglio. Viaggiavamo nei nostri escrementi: Fossoli, Monaco di Baviera, Birkenau-Auschwitz.
Arrivammo dentro il campo di concentramento, dalle fessure vedevamo le SS con i bastoni e i cani.
Scendemmo, ci picchiarono, ci divisero. Formammo due file, andai alla ricerca dei miei fratellini, di mia madre, noi non capivamo, lei sì: mi benedì ala maniera ebraica, mi abbracciò e disse “andate”.
Non l’ho più rivista. Mio padre, intanto, andava verso la camera a gas con mio nonno. Si girava, mi guardava, salutava, alzava il braccio.
Noi arrivammo alla “sauna”, ci spogliarono, ci tagliarono anche i capelli. E ci diedero un numero di matricola. “Dove sono i miei genitori?”, chiesi a un altro sventurato. E lui rispose: “Vedi quel fumo del camino? Sono già usciti da lì”.

Il ritorno da Auschwitz
Gli artefici della mia resurrezione sono stati gli amici, senza di loro non so se ce l’avrei fatta. Mi hanno preso sotto la loro protezione, sapevano che io non amavo parlare della grande tragedia che mi era piombata addosso e non mi hanno mai chiesto niente, hanno fatto sempre il possibile per farmi sentire una persona normale anche se non si può essere “normali” uscendo da Auschwitz.
Non mi lasciavano mai solo e questo è stato molto importante. Ero considerato uno del gruppo e loro sopportavano certi miei silenzi, certi pensieri: in alcuni momenti mi assentavo completamente e i miei amici non c’hanno mai dato peso (…).
Con loro e con i miei parenti per molti anni non ho parlato di quello che mi era accaduto. Temevo soprattutto che mi chiedessero come mi ero salvato… Mi terrorizzava il fatto che qualcuno potesse chiedermi “Perché tu ti sei salvato e mio figlio o mio marito no?”. Poi pensavo che se io avessi parlato di certe cose, a molta gente avrebbe dato fastidio, o quantomeno qualcuno avrebbe pensato: “Che va dicendo, non è possibile…”.
Inoltre raccontare del lager avrebbe significato in parte rivivere quelle situazioni ed io volevo sembrare una persona come tutte le altre, non dico “essere” ma almeno “sembrare”.
E così è andata: di giorno cercavo di fare una vita più normale possibile e di notte molto spesso mi ritrovavo a fare i conti con il mio passato nel lager. Sognavo continuamente di Auschwitz, era una specie di doppia vita. "



La testimonianza di un ragazzo dopo la visita ad Auschwitz
Mi rendo conto di essere stato veramente fortunato ad aver fatto questo viaggio. Si scherza, si ride, si gioca quando l’aereo atterra sulla pista dell’aeroporto di Cracovia, si parla delle cose più effimere e leggere… leggere come il primo giorno trascorso per le strade di una bella città, cogliendone il ritmo, le abitudini, i simboli (pioggia compresa).
Ma quando si esce dalla sinagoga ci si accorge quanto sono diverse le interpretazioni, le etnie della memoria. È logico e bello che sia così.
Siamo uomini che pensano, giudicano, criticano, interpretano, prima di considerare tutte quelle magnifiche facoltà che possediamo. Ognuno di noi ragazzi avrà vissuto questa esperienza in maniera diversa.
Ma tutti abbiamo visto con l’occhio l’impossibile, l’abbiamo toccato con mano, l’abbiamo respirato, l’abbiamo percorso camminando sulle molli traversine di legno madido d’acqua dei binari che costeggiano la “Juden rampe” a Birkenau, l’abbiamo sentito attraverso la voce tremante di Piero, attraverso quella decisa di Shlomo, attraverso quella simpatica e familiare di Mario e Giuseppe, ma anche attraverso quella singhiozzante e interrotta dal pianto di chi ci stava vicino mentre assistevamo alle testimonianze.
Mi sono sentito schiacciare dal peso dei capelli, entrando in quella sala, sono dovuto uscire, ho pianto bagnando l’oculare della mia macchina fotografica. Ho pianto bagnando lo spioncino della porta di una delle tante celle nei sotterranei, ho pianto bagnando un fango che è stato già bagnato da troppe lacrime e da troppo sangue.
Mi sono sentito circondato dalle urla strazianti dei gasati mentre ascoltavo Shlomo guardando solo tante macerie. Ho sentito i peli rizzarsi avvicinandomi al filo spinato, avevo la nausea dentro la piccola camera a gas di Auschwitz.
Ho pianto dentro di me, e piango ora mentre scrivo queste memorie, e mi chiedo come possano i testimoni parlare delle loro memorie con la loro vitalità e la loro speciale capacità di non abbandonarsi mentre raccontano ciò che hanno vissuto. Io, che questa tragedia l’ho vista sfilare lontano nel mio specchietto retrovisore, e per fortuna mi ha sfiorato solo perché correvo tanto veloce, ho avuto paura a guardarla negli occhi.
Non posso giudicare lo sterminio,è impossibile giudicare l’impossibile, l’importante è non abbandonarsi, questo mai, all’indifferenza.
Simone Empler


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